| Pubblicato su: | Il Frontespizio, anno III, fasc. 9, pp. 5-6 | ||
| (5-6) |
|||
| Data: | settembre 1931 |

pag.5

pag.6
5
Ma ci sono più razze di poeti. E fra l'altre: i poeti in vetrina e i poeti in incognito. I signoroni che vanno alla fama in carrozza, da vivi, buttando pillacchere e zecchini ai badauds di bocca tonda, — poeti che sanno prontamente acciuffare, anche a prezzo di scandali, Denaro, Gloria e Donne (come il fu Stenterello) e vivono nelle memorie degli uomini piuttosto per la vita loro galante e moschettiere che per i poemi. Poeti di cappa e spada, tra il tenore e il Tenorio, tra il verseggiator di cartello e il seduttor di donne; adulteri sempre (per fin colle muse), luccicanti e falsi assai spesso, tal volta eroici. Penso, per far nomi di morti, al Marino, a Chateaubriand, soprattutto a Byron. Attori più che poeti: cetra in vista e panache al vento — sulla scena sempre.
Quegli altri — i poeti in incognito — son tutto l'opposto. Vivono in solitudine, o colla famiglia in regola e pochi amici, e non hanno attitudini a essere i régisseurs di sè medesimi. Amano la vita semplice, son gente alla buona, gente onesta e pulita, più umili che superbi, più superbi che vanesi.
Non sanno amministrare il loro talento, non son pittoreschi; inadatti dunque a far le parti del matamoaros e del clown. Per loro la poesia è una chiesa e non un circo. Si chiamano, fra i moderni, Keats, Hólderlin, Leopardi, Maurice de Guérin. Finchè furono in vita soffriron molto e furono amati da pochi. Appena morti par che comincino a vivere. Dopo vent'anni, dopo cinquanta, magari dopo cento, sembrano più giovani di quando avevan vent'anni. E mentre i poeti in vetrina, spariti che sian dalle scene, a poco a poco si rivelano bamboloni di cenci ricchi, e li ricopre la polvere della dimenticanza o vivono, tutt'al più, nelle romanzature della biografia, quegli altri appariscono sempre più come stelle candenti nel cielo semideserto della poesia immortale.
Non voglio dire, per oggi, che Angelo Conti sia pari ai più grandi di questi suoi fratelli di solitudine. Ma se fu poeta, come io credo, fu della loro famiglia e la sua vita fu simile alla loro vita.
E fu, come loro, inclinato alla meditazione e anche alla filosofia. Non a quella filosofia che si rassegna nei paragrafi dei trattati o nasconde la sua tracotanza nelle formule d'una dialettica inconclusiva, ma bensì a quella filosofia, figlia e sorella dell'arte, quale conobbero i Presocratici e Platone e, fra i moderni, Novalis o Nietzsche. Filosofia vivente e vissuta, che non disdegna le immagini e i miti, che non abbandona mai la concreta esperienza dell'anima anche se bordeggia verso l'ultima Thule del mistero. A
Angelo Conti fu, oltre che poeta, anche esteta ma sopratutto nel senso di filosofo dell'estetica. La parola. «esteta» ha pessima nominanza fra noi ma vuol dire, insomma, amatore dell'arte, innamorato della bellezza, il che è sempre meglio — almeno ai miei occhi — dell'esser amator del denaro o fanatico delle macchine. Ma il Conti volle rendersi conto, ancor giovane, del segreto dell'arte e la sua famosa Beata Riva (1900) è il primo tentativo — nei tempi in cui dominava, in Italia, l'estetica positivista e goffamente empirica di Mario Pilo — di costruire un'estetica idealista. La Beata Riva delinea, in realtà, un'estetica mistica, derivata in particolar modo da, Platone e da Schopenhauer — un'estetica, in un certo senso, romantica. Ma è vivissimo in quelle pagine il senso dell'arte come immedesimazione colle
6
cose e rivelazione della natura — quasi collaborazione con Dio. Quel libro, benchè non sia un vero e proprio trattato filosofico, fu pure una prima battaglia contro l'abbrutimento positivista e una rivendicazione ingegnosa ed eloquente del carattere divino del genio e della poesia. E chi lo rilegga vi troverà anticipazioni di teorie oggi familiari a molti, e motivi che si presterebbero a utili approfondimenti. Fu, come estetico, un precursore. Prima del Croce il Conti affermò che il problema estetico è innanzi tutto problema filosofico; prima del Brémond accostò l'arte alla preghiera; prima del Gentile asserì l'importanza del sentimento nell'arte. Nè gli sfuggirono i rapporti tra l'arte e la religione e nella Beata Riva, al tempo dell'apogeo positivista, troviamo citati, accanto a Plotino e ad Eraclito, anche Buddha e San Francesco, Sant'Agostino e il Vangelo. E l'amore penetrante ch'egli dimostrava allora per le pitture religiose di Giotto e dell'Angelico lo rese capace, anni dopo, d'intendere pienamente le verità rappresentate da quelle pitture e di poter ragionare, con animo francescano, dell'alter Christus di Assisi. Allora, al tempo della Beata Riva, gli pareva che la preghiera dei fedeli fosse qualcosa d'imperfetto a paragone della più vera preghiera ch'era per lui la creazione del genio. Ma negli ultimi anni riconobbe l'errore dell'esteta giovane e recitò con gioia, fino al dì della morte, le orazioni imparate dalla Chiesa e dai Santi.
Ma i distratti — e quelle balie asciutte in pantaloni che sono i critici — non se n'accorsero. Quel piccolo uomo candido e solingo, così mite insieme ed entusiasta, non corrispondeva al figurino del genio romantico e decadente di quaranta o vent'anni fa. La sua vita era troppo normale e morale. Niente, in lui, di boemesco, di ciranesco, di dongiovannesco. Sposò, giovane, una donna buona e bella che amò tutta la vita; visse sempre con lei, coi figliuoli, colle figliole, come un saggio degli antichi tempi, amoroso riamato, contento del poco nell'ordine temporale, insaziabile di bellezza, di grandezza e d'eternità nell'ordine spirituale. Conversò con Regine e Principesse — che giustamente l'amarono per la luce della sua bontà ravvivata dal calore della poesia — ma gli piacque ascoltare con attento cuore le rivelazioni dei merli e dei rosignoli che cantano fra gli alberi regali di Capodimonte. Ebbe per amico quotidiano, nella sua solitudine, un vecchio astronomo e dette una delle sue figliole per sposa ad un giovane astronomo. Fu sempre, perciò, in relazione diretta col cielo: come uomo, come poeta e come cristiano: col cielo visibile che parla colle sue stelle a noi, «clausi tenebris et carcere caeco», e col cielo soprannaturale dove Cristo attende, in mezzo alla rosa dei beati, chi seppe amarlo nel sangue lasciato da Lui sulla terra.
Ma nonostante tutto la figura di Angelo Conti non era tale da scotere la viziata fantasia dei periodisti. Ottimo sposo, ottimo padre, ottimo amico, ottimo fedele — nell'aspetto, insomma, il più comune degli uomini, benchè tali qualità siano sempre meno comuni: ma la perfezione non è, direbbero, «interessante». La virtù non è interessante quanto il peccato; e il ciarlatano è assai più interessante dell'eremita: in religione, poi, non v'è d'«interessante», per la plebe colta, che lo scismatico e l'eretico.
Ad Angelo Conti non dolse certo di passare, incompreso e quasi sconosciuto, in mezzo alle turbe alla vil fama intese. La poesia, la saggezza e infine la fede lo salvarono. Se la parola di Hólderlin è vera — «eines zu sein mit allem, was lebt» — egli visse profondamente tutti i suoi giorni chè sempre si senti unito con umiltà d'amore a ogni creatura del mondo. E quando ripenso alla sua faccia illuminata dagli occhi claustrali sotto la vasta fronte di profeta fanciullo e alla sua bianca barba d'apostolo degli ultimi giorni, dalla quale uscivano, dette in voce soave, verità essenziali che s'eran vestite d'immagini per meglio scender nel cuore di chi l'ascoltava, io son certo d'aver conosciuto uno dei più alti e compiuti esemplari d'umanità che sian vissuti al tempo nostro.
Un Platone cristiano ch'ebbe, a momenti, l'ispirazione di Shelley e fu degno, alla fine, di cantare il più santo dei poeti, il più poeta dei santi: San Francesco. L'arte fu, per lui, interceditrice per salire dalla bellezza alla santità; dalla contemplazione alla preghiera. Amante non dell'arte sola ma della natura, opera del Sommo Artista, potè tornare, grazie alla purezza dei suoi amori per il visibile, alla fontana d'ogni bellezza e d'ogni amore. Se l'antica idea che l'anima è prigioniera del corpo è vera e se vi sono, in questa prigione, i rassegnati e gli evasori, Angelo Conti fu un prigioniero felice perchè seppe, prima della morte, liberarsi. E la sua vita, cominciata tra cadaveri e musei, fini con questo libro ch'è un'antifona di giubilo. Il resto del canto, non scritto, l'ha ormai letto negli occhi veri del suo Francesco.
Brano della prefazione al bellissimo volume postumo di Angelo Conti: San Francesco. Firenze, 1931. Vallecchi. L. 10.
◄ Indice 1931
◄ Il Frontespizio
◄ Cronologia